I moderni esperti di Seo (Search Engine Optimization) trascorrono buona parte del loro tempo cercando un particolare algoritmo attraverso il quale Google decreta il successo o l’insuccesso di un determinato sito web e che si pone sempre più come il discrimine assoluto tra il trionfo e la disfatta commerciale di ogni singola proposta presente in rete.
La grande difficoltà di decretare in quale modo vengano dichiarati i parametri esaminati dal motore di ricerca di Mountain View, è resa ancor più complicata dall’idea che Google possa manipolare come meglio crede i risultati della serp e che possa stabilire particolari gerarchie attraverso le proprie specifiche esigenze, vanificando così i numerosi sforzi legati ad indicizzazione, SEO e posizionamento dei contenuti individuali.
Benché questo modus operandi possa essere considerata inquietante, pare che la pratica sia pienamente legale e in totale accordo con il Primo Emendamento della Costituzione Americana, il quale sancisce l’assoluta libertà d’espressione per i cittadini americani e quindi anche quella dei responsabili di Google di stabilire chi e cosa debba emergere sul sito di loro proprietà.
Perchè Google in primo luogo, bisogna ricordarsi, che è un’azienda, ed in quanto tale, il suo scopo è quello di fatturare.
La massima autorità giudiziaria americana, nonchè il giudice della Corte Suprema ha emesso una sentenza attraverso la quale si stabilisce che: Google è pienamente autorizzato a fare quello che vuole quando vuole e con chi vuole sul proprio dominio, a prescindere dagli ideali democratici che imporrebbero una parità di trattamento tra tutte le fonti presenti sul motore di ricerca.
In parole povere, se la fortuna di Google è stata legata per anni alla presunta imparzialità del sito e alla speranza, per milioni di utenti, di poter emergere nei risultati di ricerca semplicemente in virtù della propria bravura, delle loro esperienze e del loro impegno, ora si è scoperto che la realtà è ben diversa (la cosa, era già in parte evidente a tutti gli addetti ai lavori) e che, per giunta, nessuno può fare niente in merito, dal momento che la selezione pilotata dei contenuti operata da Google non viola nessuna legge.
Se da un alto appare piuttosto ovvio che Google tenda a privilegiare i propri inserzionisti (non trattandosi di un ente di beneficenza, né di una servizio pubblico), dall’altro il problema raggiunge connotazioni allarmanti su un versante legato all’etica professionale. Ci viene quindi un dubbio: è legittimo che una società proponga un servizio apparentemente imparziale e basato su un asettico algoritmo per poi manipolarene i risultati?
Attendiamo che anche l’Europa si pronunci sulla questione. Per il momento non resta che accettare la sentenza americana e… sperare!